Padre Didon ispirò il motto olimpico

da Il Sole 24 Ore – 21 luglio 2024 – di Gianfranco Ravasi.

In questo articolo il Cardinal Ravasi ci parla di Angela Teja e di come analizza le dimensioni filosofiche ed etico-spirituali di «Citius, altius, fortius» e del profilo del domenicano, straordinario spirito eclettico nei suoi interessi.

Non ho mai praticato nessuno sport, se si eccettua la camminata chilometrica quasi quotidiana, che non è però riconosciuta come disciplina sportiva. Eppure, forse sono l’ecclesiastico che ha intrattenuto il maggior numero di contatti, rapporti e dialoghi col Comitato Olimpico Internazionale e col suo presidente Thomas Bach, al punto tale che – quando ho concluso il mio mandato di capo-dicastero vaticano della Cultura, nell’ottobre 2022 – ho ricevuto dalle sue mani come omaggio simbolico una delle medaglie d’oro delle Olimpiadi di Tokyo.

Questa premessa autobiografica, forse un po’ spudorata, è tuttavia necessaria per presentare un saggio di Angela Teja, la più importante studiosa dello sport come fenomeno storico e culturale e, per certi versi, imparentato con la religione (tanti sportivi hanno evocato i loro esordi nei campetti degli oratori parrocchiali del passato). Infatti, in appendice al volumetto è raccolta tutta la documentazione degli incontri e dei carteggi tra la Santa Sede e il Cio, compresi quelli diretti tra il presidente Bach e il papa Francesco, particolarmente sensibile a questo tema tanto da avallare la costituzione di un’Athletica Vaticana che ha iniziato ad affacciarsi anche in alcune competizioni internazionali.

Il cuore ideale di questa connessione della Chiesa cattolica con la massima istituzione sportiva è da ricercare in una componente ignota ai più che risale alle radici stesse dell’olimpismo. Il celebre artefice di questa realtà ormai universale a livello istituzionale (si pensi al rilievo del nostro Coni), il barone Pierre de Coubertin (1863-1937) aveva come guida spirituale un domenicano, p. Martin Didon (al secolo Henri Louis Rémy), a cui era legato da profonda amicizia. Fu questo religioso, nato nel 1840 e dotato di uno straordinario spirito eclettico nei suoi interessi, a suggerire il motto latino olimpico «Citius-Altius-Fortius», di implicita matrice tomista.

In realtà, questa triade che rimanda – attraverso un comparativo assoluto – a una tensione progressiva nella velocità, nell’altezza e nella forza era stata elaborata inizialmente nel 1891 all’interno dell’attività pedagogica che p. Didon esercitava nel collegio francese di Arcueil. La studiosa nel suo saggio ricostruisce la genesi di questo motto anche nelle sue dimensioni filosofiche ed etico-spirituali, prima che entrasse ufficialmente nella “Carta olimpica” nel 1949, quando p. Didon e lo stesso de Coubertin erano da tempo morti (il domenicano si era spento nel 1900), ma con un’accezione tendenzialmente “fisica”. Tuttavia il Comitato Olimpico si era sforzato di assegnare ad esso implicitamente una qualità più morale come codice di condotta nelle competizioni sportive.

L’ottica iniziale era, infatti, legata al rinnovamento del sistema educativo ai fini di una formazione integrale della persona: fin dalla classicità si promuoveva un equilibro interattivo tra corpo e anima. Chi non ricorda il detto Mens sana in corpore sano, tratto da un verso (il 356) della X Satira del poeta latino Giovenale (I-II sec. d.C.)? La paideia greca esaltava una formazione basata sull’euritmia fisica, psichica e intellettuale, tant’è vero che gli eventi olimpici classici erano persino generatori di poesia, come le odi Olimpiche di Pindaro (VI-V sec. a.C.).

A questo punto, però, ritorniamo al rapporto vaticano col CIO suggellato da una mia visita ufficiale nella sede di Losanna nell’aprile 2016. Fu già in quell’occasione che – anche attraverso la sensibilità del presidente Bach – sul tappeto fu posta la questione dell’aggiornamento del motto olimpico tenendo conto di alcuni fenomeni di prevaricazione o di tifo esasperato e della necessità di recuperare lo spirito autentico della “competizione”, che nella sua stessa etimologia latina suppone un petere cioè un “gareggiare” cum “insieme”.

Le molteplici visite di Bach in Vaticano, l’impegno della stessa istituzione olimpica, i vari convegni e gli incontri con le altre religioni attorno ai temi dell’inspiration-inclusion-involvement, e la stessa presenza della Santa Sede con un suo osservatore ai vari Giochi e Sessioni olimpiche condussero all’idea di trasformare la triade in una tetralogia: Citius-Altius-Fortius-Communiter, che poteva essere resa in inglese come Faster-Higher-Stronger-Together (inizialmente il CIO aveva proposto una sgrammaticatura latina, Communis). In tal modo, a distanza di quasi cent’anni si completava il progetto di p. Didon con una dimensione, tra l’altro, cara a papa Francesco, quella della fratellanza sportiva.

Dopo tutto, un suo predecessore, Pio XI, era stato alpinista quasi “professionale”, tant’è vero che alcune vette e sentieri d’ascesa recano ancora oggi il suo cognome originario, Ratti. Per non parlare di Giovanni Paolo II, definito «l’atleta di Dio», fotografato mentre sciava, faceva canoa e nuoto e si rivolgeva spesso agli sportivi di ogni disciplina, mentre papa Francesco era ed è tifoso della squadra di calcio S. Lorenzo di Buenos Aires, della quale è tesserato (n. 88235N-O). D’altronde, il simbolo del gioco è una delle categorie analogiche usate anche in teologia, e lo scrittore francese André Maurois osservava che «il vero spirito sportivo partecipa sempre dello spirito religioso» spesso usandone simboli e riti.