Il tempo di seminare tolleranza

da Il Sole 24 Ore – 14 luglio 2024 – di Gianfranco Ravasi.

In questo articolo il Cardinal Ravasi ci racconta di Arnold Angenendt e di come, a partire dalla parabola evangelica della zizzania, il saggio procede dalle matrici bibliche sino ai diritti umani della modernità.

«Tolleranza zero!» è il motto che partiti e individui a tendenza forcaiola imbracciano insieme al parallelo «Buttare la chiave», dopo aver carcerato il delinquente.

Il motto è talora penetrato anche nel mondo ecclesiastico, soprattutto in connessione col delitto di pedofilia. La categoria “tolleranza”, che nell’opinione comune è legata all’Illuminismo (i nomi che di solito si citano sono quelli di Voltaire, Hobbes, Locke, Kant, Bayle), sommuove un vespaio di altri fili tematici correlati, come la giustizia e il giudizio, la violenza e la maledizione, ma anche l’amore, la clemenza, il condono e il perdono. Il tutto si annoda in un groviglio difficile da districare e ordinare in un tessuto coerente.

È ciò che cerca di fare un docente di Storia della Chiesa dell’università tedesca di Münster, Arnold Angenendt, scomparso nel 2021 a 87 anni, interessato soprattutto allo studio delle dinamiche religiose e socio-culturali dei vari secoli europei a partire dal Medioevo. Il suo saggio, molto suggestivo nonostante l’evocata complessità della materia, si muove secondo una traiettoria diacronica: non per nulla il sottotitolo suona «La tolleranza nella storia del cristianesimo». In filigrana, però, il lettore s’accorge che l’analisi riesce a configurarsi anche come una sintesi sincronica su una realtà che ripetutamente vacilla ai nostri giorni a prima vista così “tolleranti”.

Per coordinare un materiale così molteplice che procede dalle matrici bibliche giù giù sino ai diritti umani della modernità (in verità molto meno tutelati di quanto si proclami), l’autore ricorre a una curiosa parabola evangelica che è nella citazione del titolo stesso: «Lasciate che crescano insieme…». Essa è nota come “la parabola della zizzania”, nella quale ricorre per ben otto volte il termine greco zizánion che nella classificazione botanica reca il nome latino di lolium temulentum (donde il nostro “loglio”), cioè “ubriacante”, riferito agli effetti tossici imputabili non tanto alla pianta ma ai parassiti ospitati nelle sue spighe. Il vocabolo persiste al livello comune nella forma metaforica “seminare zizzania”.

La sua presenza infestante in un campo di grano è narrata nel Vangelo di Matteo (13,24-30) e può generare la reazione spontanea dei coltivatori che vorrebbero estirparla subito col rischio di sradicare con essa anche il frumento. In realtà, la pratica corretta è quella suggerita dal padrone di quel terreno che, da buon agronomo, suggerisce: «Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura». La tecnica proposta è quella di attendere la mietitura ove è più agevole identificare e strappare la zizzania «legandola in fasci per bruciarla» e isolare il grano da depositare nei magazzini.

Facile è intuire nella reazione iniziale dei contadini lo zelo degli intolleranti che vorrebbero intervenire brutalmente subito con vendette, condanne, restrizioni, creando uno stato di terrore e una comunità impaurita, riducendo i diritti civili. Gesù, a più riprese, ribadisce la sua legge primaria della non-violenza e, pur ricordando «la durezza del cuore umano», condanna ogni giudizio sommario: si pensi solo al celebre episodio dell’adultera narrato nel Vangelo di Giovanni (8,1-11). Certo, da sottoporre a una corretta ermeneutica sono le numerose pagine violente della Bibbia e da tutelare sono anche le esigenze della giustizia.

Tuttavia, già nel Libro della Sapienza, un testo biblico tardo (forse 30 a.C.) e non citato dallo storico tedesco, si legge: «Tu, o Dio, hai compassione di tutto perché tutto puoi, chiudi gli occhi sul peccato degli uomini aspettando il loro pentimento» (11,23). L’apostolo Paolo ricorre a un vocabolo greco che lui solo usa per due volte nella Lettera ai Romanianochê (2,4; 3,26), ignorato anch’esso da Angenendt, il cui valore è appunto “tolleranza, indulgenza, condono, clemenza, remissione, pazienza”. Il monito paolino suona così: «Tu disprezzi la ricchezza della bontà di Dio, della sua anochê e della sua magnanimità, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione?». San Girolamo, nella sua Vulgata, usa una sola volta il latino tolerantia ma nel senso di “sopportare una prova” (2 Corinzi 1,6).

Abbiamo riservato un ampio spazio alla presenza biblica del tema ove dovremmo, però, anche sottolineare la cosiddetta “riserva escatologica” espressa nella parabola attraverso il simbolo della mietitura: a suggello della storia si giudicherà nettamente bene e male (il vaglio della zizzania e del grano). L’opera dello studioso tedesco rivela una mirabile ricchezza nell’affresco successivo con squarci di grande interesse sull’intolleranza nella storia del cristianesimo secondo tutte le sue variazioni. Esemplare è la sezione riservata al Medioevo e al tema dell’eresia, delle scomuniche, dei roghi, delle coercizioni, dell’“estirpare”, della caccia alle streghe, della successiva Inquisizione con l’irrompere della Riforma che, certo, esalta la «libertà del cristiano» ma non nel senso dell’attuale concetto di libertà religiosa.

Lasciamo al lettore di seguire, poi, le ulteriori tappe fondamentali scandite dal citato Illuminismo e soprattutto dalla complessa elaborazione della moderna libertà religiosa. Sono pagine preziose anche per la felice capacità dell’autore di cogliere i crocevia e le figure capitali, dal Concilio Vaticano II fino ai contributi di Böckenförde, di Walser, di Habermas e la configurazione dello Stato laico.