Finzione: dissimulare con gli altri e mentire a se stessi

Tutto il mondo è un palcoscenico, donne e uomini sono soltanto attori. Così William Shakespeare in Come vi piace introduceva un motivo ripreso pochi anni dopo, in Macbeth, dove il protagonista definiva la vita come null’altro che un’ombra che cammina, un povero attore che si agita e si pavoneggia sulla scena per un’ora, per poi cadere nell’oblio.

Un certo grado di finzione, di selezione degli aspetti di sé da presentare agli altri, è quasi fisiologico nella costruzione dei rapporti sociali e professionali. Spesso si finge per compiacere l’altro, e ci si mostra tanto più diversi da sé, quanto più superficiale e distante è la relazione che si instaura.

In un tempo sempre meno antropocentrico, i rapporti tra le persone sono sempre di più, e sempre più fragili. Sempre più connessi e allo stesso tempo sempre più soli. I mezzi di comunicazione spingono a creare rappresentazioni di sé veloci, accattivanti, semplificate, che possano raggiungere più persone possibile.

Numerosi studi (ex multis, Tibber, Zhao, Butler 2020; Sherlock M. 2019), hanno dimostrato come l’utilizzo dei social media sia correlato a una scarsa percezione del sé e ad esiti psicologici negativi.

D’altro canto, smettere di fingere significa superare la paura dell’altro, e il timore di non piacere per ciò che si è. La capacità di conoscerci e di costruire connessioni è ciò che ci distingue dagli animali che, per autodifesa, si mimetizzano con l’ambiente circostante, o assumono l’aspetto di altre specie più pericolose.

Il rischio, sempre più concreto, è che questa finzione non si limiti a compromettere i rapporti con gli altri, che si arrivi a mentire anche a se stessi, che ci si trasformi nelle rappresentazioni che si sono create, dimenticando ciò che ha provato a insegnarci Il ritratto di Dorian Grey.

Sarà solo il tempo a dirci se saremo capaci di invertire la rotta e di tornare a guardarci negli occhi.

 

Dafne Tomasetto