Habitat da abitare: tra speranza e responsabilità

Il nostro modo di vivere è insostenibile; i modelli di consumo attuali causano danni irreparabili alla salute dell’habitat. Report e statistiche informano di condizioni allarmanti; l’UNICEF, in particolare, registra un miliardo di bambini ad altissimo rischio per l’impatto dei disastri ambientali.

Questo è il quadro di una realtà che pesa come un macigno sulle coscienze di una nuova generazione, la quale si trova a vivere un momento storico decisivo, affrontando la complessa sfida di costruire arche capaci di resistere alle alluvioni di un mondo in continua distruzione. Crescere in questo contesto significa, inoltre, portare sulle spalle una consapevolezza che le generazioni precedenti non hanno mai conosciuto, che si traduce in una gamma di emozioni oscillanti tra la paura per un futuro incerto e l’ansia di non riuscire a invertire il corso degli eventi.

Tuttavia, questa consapevolezza si trasforma anche in determinazione a cambiare le cose, alimentando un profondo senso di responsabilità verso l’ambiente e le generazioni future. Se iniziassimo a riflettere sul termine “abitare”, che affonda le radici nel latino habitare, ci sarebbe chiaro l’invito a stabilire un legame autentico con il nostro ambiente non limitato al solo scopo di occupare uno spazio, ma finalizzato a costruire una relazione profonda, caratterizzata da cura e responsabilità. In un mondo dominato da conflitti e interessi economici, emerge una filosofia che ricorda tempi sereni, lenti e che celebra la decrescita, come nel pensiero di Serge Latouche, che esalta l’amore tra gli esseri umani come motore di un cambiamento sociale concreto. In questo contesto di trasformazione dell’umanità, il ruolo della speranza diventa cruciale; essa guida il dialogo tra scienza e dimensione morale, invitandoci a riconoscere che ognuno di noi può essere parte di una storia più grande, un racconto di cura e rispetto per il nostro habitat.

Nel ritorno dirompente del ruolo della speranza non sono più solo i santi a incarnare la visione di un sacrificio volto al bene comune, ma figure come Jane Goodall, naturalista e attivista che ha dedicato la propria vita alla protezione degli ecosistemi. Goodall sottolinea che la speranza non è un’illusione, ma una forza vitale che si nutre dell’azione e della consapevolezza. Le riflessioni di questa scienziata si intrecciano con le tradizioni di fede, dove la speranza è vista come un imperativo morale verso il prossimo. Anche l’arte visiva partecipa a questa trasformazione interiore; dalla contemplazione nasce la necessità di agire per un cambiamento sociale. Un esempio emblematico è l’opera The Bird Tree di Christina Kubisch, esposta al MAXXI di Roma, installazione che amplifica e attenua i suoni in base al movimento e alle scelte del fruitore, creando un gioco di interazione che sottolinea l’importanza delle nostre azioni nel mondo.

In questo dialogo tra speranza e responsabilità, dove emerge la necessità di un cambiamento profondo, in cui ogni individuo e sistema decisionale alternativo può diventare prezioso, forse giace il tesoro della crisi che in quanto umanità dobbiamo affrontare, anche se con timore: la bellezza di poter trasformare le nostre paure in azioni concrete, scrivendo insieme una nuova storia di rispetto e amore per il nostro habitat che ci porterà ad essere un’umanità nuova.

 

Giulia Fasolato