Parole che sanno narrare la fede

da Il Sole 24 Ore – 1 settembre 2024 – di Gianfranco Ravasi.

In questo articolo il Cardinal Ravasi ci parla delle nuove parole che vengono usate per narrare la fede, una sfida importante per la Chiesa del XXI secolo, che si interroga sul proprio linguaggio e sulla comunicazione verso i fedeli.

Nel numero dell’aprile scorso di un vivace mensile cattolico, «Jesus», sono stati convocati quattro esperti di materie differenti – una teologa (Stella Morra), un filosofo (Gaetano Piccolo), una scrittrice (Mariapia Veladiano) e una studiosa di retorica (Flavia Trupia) – attorno a un comune interrogativo: quali parole nuove per dire la fede? Il punto di partenza era un po’ sconsolato: omelie spersonalizzate, liturgie incomprensibili e sciatte, documenti ecclesiali verbosi, testi teologici esoterici, libri religiosi noiosi e così via. In sintesi, il tema è sempre lo stesso verso il quale anche chi ora scrive queste righe è spesso strattonato, ossia la sfida del linguaggio e della comunicazione nella Chiesa del XXI secolo.

Non è il caso di offrire ora il succo di quel dialogo che alla fine si annodava attorno a spunti metodologici efficaci ma la cui declinazione sbandava di fronte all’esercizio concreto. È facile identificare le carenze: parole non più connesse a una cultura in evoluzione incessante, termini astratti privi del mordente simbolico-narrativo-figurativo, assenza di tecnica comunicativa (ovviamente senza scimmiottare gli influencer), ricorso a stereotipi pur nobili ma ormai desueti o equivoci all’orecchio del fedele (ad esempio, “redenzione” e persino “salvezza”), distanza dalla sostanza e dallo stesso patrimonio biblico, più coinvolgente di quanto sembri (le parabole di Gesù insegnano), l’uso di ramificazioni nel discorso invece della chiarezza triadica delle parole-chiave, strategia tipica della retorica ma persino del rap, e così via.

Non si dica che oramai i praticanti diminuiscono e che, quindi, l’annuncio diventa solo settoriale ed esclusivo, perché in realtà stanno aumentando le persone in ricerca spirituale che potrebbero rilanciare la protesta del profeta Isaia: «Guardai, ma non c’era nessuno, tra costoro nessuno capace di consigliare, nessuno da interrogare per avere una risposta» (41,28). I tentativi di agganciare costoro ma soprattutto di stimolare i credenti ad essere coscienti della loro fede e – come già suggeriva san Pietro nella sua Prima Lettera – ad essere «pronti a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in loro» (3,15), non mancano al livello bibliografico, anche se non sempre in maniera rigorosa e decorosa.

Segnaliamo ora un testo suggestivo, passibile forse di qualche critica – come è ovvio che sia in simili sperimentazioni – giunto nell’originale spagnolo nientemeno che alla 24° edizione con un totale di 200mila copie vendute, senza contare le altre sette lingue in cui è stato tradotto. Apparso per la prima volta più di 40 anni fa (1982), è stato ripetutamente rielaborato dal suo autore, un ingegnere minerario divenuto sacerdote, parroco a Madrid, dedito soprattutto alla divulgazione teologica. Il suo nome, un po’ ispanicamente pomposo, è Luis González-Carvajal Santabárbara, ed è già stato presentato al pubblico italiano nel 2021 col Credo spiegato ai cristiani un po’ scettici (Dehoniane).

Ora si propone la versione italiana della sua opera più fortunata che vorrebbe essere un’introduzione alla sostanza della fede cristiana «per non addetti ai lavori», con lo sforzo di articolare tutti i capisaldi e gli snodi teologici in un linguaggio comprensivo e un po’ colorito. Se uno scorre l’indice degli autori citati, scopre infatti che di scena non sono solo Padri della Chiesa, autori medievali o teologi contemporanei ma anche una piccola folla di scrittori e testimoni “laici”. L’arco dei temi si espande dal peccato originale nel suo vero significato, confrontato anche con la scienza moderna, fino alla risurrezione di Cristo coinvolgendo la reinterpretazione della triade escatologica paradiso-inferno-purgatorio.

All’interno di questi due poli estremi s’allarga il ventaglio delle questioni che innervano la fede, ovviamente con uno spazio vasto riservato alla cristologia che, di sua natura, rimanda al discorso sul Dio trinitario (la “teo-logia” specifica), con le sue ricadute sul mistero del male e della sofferenza. Si affaccia, così, l’antropologia che esige l’elaborazione di un ritratto completo del cristiano nella sua genesi battesimale, nella sua esistenza morale, nel suo essere parte viva del corpo della Chiesa e dei suoi sacramenti.

L’elenco, per molti versi scontato, che abbiamo ora delineato, non rende ragione della vivacità del dettato, ma anche degli imprevisti a cui si trova esposto il lettore quasi in ogni pagina. Chi, invece, pur «non addetto ai lavori» ma più assuefatto al linguaggio ecclesiale, volesse percorrere un itinerario generale, ha a disposizione un volumetto dal titolo lapidario, ma forse spiazzante, I dogmi. A sciogliere le riserve e le allergie spontanee che si accumulano nella mente di molti appena sentono pronunciare questa parola, considerata come un’amputazione del pensiero libero e creativo, ci pensa uno dei migliori teologi francesi contemporanei, il gesuita Michel Fédou, classe 1952.

Interessante è la distinzione tra i dogmi della Chiesa antica e quelli del secondo millennio (ad esempio, sacramenti, immacolata concezione e assunzione di Maria, infallibilità papale). Importante è soprattutto il capitolo sull’interpretazione dei dogmi che tiene conto della cultura post-moderna. Tra l’altro, la semantica radicale del termine “dogma” è fluida e può significare innanzitutto “decisione, decreto”, ma anche “indicazione, dimostrazione”.