Simone Weil si confronta con il Cristo

da Il Sole 24 Ore – 30 giugno 2024 – di Gianfranco Ravasi.

In questo articolo il Cardinal Ravasi analizza la figura di Simone Weil e la sua ricerca teologica.

«Sorelluccia inviolata / ultima colomba dei diluvi / stroncata bellezza del Cantico dei Cantici / camuffata in quei tuoi buffi / occhiali da scolara miope». Così Elsa Morante, l’autrice di La storia, rielaborava poeticamente e spiritualmente il ritratto fotografico di Simone Weil, straordinaria scrittrice e testimone di origine ebraica nata a Parigi nel 1909, secondogenita di un medico alsaziano e di una donna russa, morta nel 1943 in un sanatorio ad Ashford, nel Kent inglese. La sua breve biografia è emozionante perché intreccia un’intelligenza unica, che si svelerà nei suoi scritti, a un impegno sociale condotto fino allo spasimo, nell’insegnamento agli studenti operai, nella tutela sindacale dei braccianti, nel lavoro fisico spalla a spalla con gli sfruttati, nel progetto di costituire un gruppo di infermiere volontarie durante il conflitto bellico.

La sua esistenza si spegnerà proprio per deperimento organico, consumandosi goccia dopo goccia. Ma contemporaneamente la sua riflessione veniva affidata a scritti di grande potenza intellettuale e spirituale, tanto da conquistare molti agnostici accanto a persone di tempra mistica. Da un lato, ad esempio, la citata Elsa Morante o – come posso attestare direttamente nei miei dialoghi privati avuti con lui – Franco Fortini; d’altro lato, una donna in piena sintonia con lei, la credente Cristina Campo che definiva l’opera che stiamo presentando «un immenso libro».

Prima, però, di parlarne è necessario rievocare un aspetto capitale di Simone Weil, ossia il suo confronto affascinato con Cristo, fino ad arrivare lei, ebrea e agnostica, alle soglie di un battesimo che non fu mai celebrato. Alla radice c’erano due componenti decisive. La prima fiorì durante un viaggio in Italia (Firenze, Roma e soprattutto Assisi) e la Settimana Santa del 1938 vissuta nell’abbazia benedettina di Solesmes. Fu una sorta di illuminazione e – lei stessa lo confessava – Cristo era sceso e l’aveva attratta a sé, com’era accaduto all’apostolo Paolo sulla via di Damasco, perché «i beni più preziosi non devono essere conquistati ma attesi», in dono e per grazia.

L’altra componente di questo coinvolgimento cristiano fu l’incontro con un padre domenicano, Joseph-Marie Perrin (1905-2002), quasi cieco dalla nascita e per testimonianza della stessa Weil, segnato da «un’ascetica magrezza». È lui il suo interlocutore privilegiato e le sei lettere a lui indirizzate costituiscono il nerbo del testo che presentiamo, Attesa di Dio, un’opera miscellanea che Adelphi ripropone con una guida iniziale di Maria Concetta Sala e un saggio finale del maggior interprete di Simone, Giancarlo Gaeta. È merito dell’editrice milanese se altri scritti di questa donna geniale siano stati offerti ai lettori “laici”, come i quattro volumi dei suoi Quaderni.

Certo, altre opere sporadicamente tradotte da vari editori, come L’ombra e la grazia L’amore di Dio La Grecia e le intuizioni pre-cristiane (testo originale per il privilegio assegnato alla classicità greca con una sorta di sforzo sincretistico), meriterebbero una riproposizione o almeno una rilettura, tenendo conto anche del fatto che l’editore francese Gallimard, tra il 1988 e il 1994, ha pubblicato le Oeuvres Complètes. Ma ritorniamo al testo in questione. È suggestivo scoprire nell’epistolario con p. Perrin come l’anima di Simone e la sua ricerca teologica si riflettano in ogni riga, ma al tempo stesso il lettore è coinvolto in un esercizio mentale e spirituale di altura. Lei stessa usa l’immagine dell’«uomo in cima a una montagna che, guardando davanti a sé, percepisce, pur senza guardarle, molte foreste e pianure sottostanti».

Esse esistono e sono intuite prima ancora di guardarle, definirle e percorrerle. Entra, così, in azione il tema dell’«attesa-attenzione» che prelude alla grazia di vedere-capire-possedere. Lapidario è ancora il suo dettato: «Il pensiero deve essere vuoto, in attesa, non deve cercare alcunché, ma essere pronto ad accogliere nella sua nuda verità l’oggetto che sta per penetrarvi». È, dunque, l’esperienza di un’epifania rivelatrice che spesso è teofania. Necessarie sono, appunto, l’attenzione e l’attesa, cioè un «tendere» o, meglio, essere tesi come un arco, consapevoli che «ogni turbamento personale della sensibilità è sufficiente a impedire» questo esercizio.

Tanto altro si scopre in queste lettere, soprattutto nella quarta, «di una lunghezza spaventosa» come lei stessa riconosceva, perché in essa Simone ricompone la sua autobiografia spirituale. Il libro, però, come si diceva, è antologico e accoglie altri scritti: si legga il folgorante commento al “Padre nostro” nel quale lei fa notare che il percorso di questa orazione è antitetico rispetto a quello che regge di solito ogni preghiera che va dal basso verso l’alto, dall’uomo e della sua miseria a Dio e alla sua luce. Qui, invece, si parte dal cielo («Padre nostro che sei nei cieli») e dal divino, e si scende fino al groviglio oscuro del male («liberaci dal male»), secondo il movimento tipico della grazia, a cui sopra si accennava, e della stessa “incarnazione” di Dio nell’uomo Gesù Cristo.

Significativi sono anche i vari scritti ulteriori presenti nell’Attesa di Dio, con diverse redazioni e minute accompagnate da molte note editoriali: c’è persino una curiosa «Riflessione sul buon uso degli studi scolastici in vista dell’amore di Dio». Concludiamo, però, lasciando la voce a lei: «Dio e l’umanità sono come due amanti che hanno sbagliato il luogo dell’appuntamento. Tutti e due arrivano in anticipo sull’ora fissata ma in due luoghi diversi. E aspettano, aspettano, aspettano. Uno è in piedi, inchiodato sul posto per l’eternità dei tempi. L’altra è distratta e impaziente. Guai a lei se si stanca e se ne va!».