Con il Battista sul Monte Macheronte

da Il Sole 24 Ore – 23 giugno 2024 – di Gianfranco Ravasi.

In questo articolo il Cardinal Ravasi ci parla del testo divulgativo a firma di Győző Vörös, eccezionale archeologo ungherese, in cui ripercorre gli interventi che gli hanno permesso di ritrovare nel carcere della fortezza di Macheronte gli spazi palatini in cui si è consumato il martirio del Battista.

Ha sempre impressionato quella testa staccata da un colpo di spada, collocata su un vassoio e presentata come macabro trofeo durante un banchetto. A evocarla è l’evangelista Marco (6,14-29) nel suo racconto della decapitazione di Giovanni Battista il precursore di Cristo, una scena dipinta in modo emozionante da Caravaggio nel 1608 durante il suo soggiorno a Malta, opera ora custodita nella Cattedrale de La Valletta. A volere quel tragico esito era stata una donna, Erodiade, cognata e amante del tetrarca Erode Antipa, settimo figlio di Erode il Grande. Era, così, messa a tacere quella voce profetica implacabile che urlava al re, nel silenzio complice dei sudditi: «Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello!».

In realtà, come diceva don Primo Mazzolari, quella voce continuò a gridare forte anche quando non era più sul collo del Battista. Quell’esibizione teatrale della testa mozzata sul piatto voleva ridurre al silenzio un testimone scomodo, la cui parola tagliente era finalmente tagliata, in un contesto conviviale che fondeva in modo lugubre parlare e mangiare. Ma nei secoli la sua figura non cesserà di vivere e proclamare, come attesta la liturgia cattolica che ogni anno, il 29 agosto, commemora quella decollazione e come è confermato dalla stessa arte di tutti i tempi in forme anche sorprendenti.

Basti solo pensare al dramma musicale in un atto Salome che Richard Strauss compose sulla base dell’opera teatrale omonima scritta in francese da Oscar Wilde nel 1891 per Sarah Bernhardt. Strauss la fece tradurre in tedesco, la musicò e la propose a Dresda il 9 dicembre 1905, in mezzo ad aspre critiche del pubblico che trovò l’opera scandalosa, sadica e perversa. Effettivamente la trama è sconcertante con la figura di Salome innamorata di Jokannan, decisa a possederlo masochisticamente, attratta anche dalle sue accuse veementi e dal totale rigetto delle sue profferte sessuali.

Alla fine, dopo una serie di colpi di scena tragici, come nel racconto evangelico, il tetrarca Erode, pur inorridito, dovrà cedere alla richiesta della donna e farle consegnare su un vassoio d’argento il capo sanguinante del Battista. Salome pronuncia parole di amore e passione e alla fine bacia sulla bocca quella testa decapitata. Gli effetti erotici nell’insieme dell’opera sono esaltati da una musica violenta e insinuante al tempo stesso, accesa e aggressiva, ossessiva e frenetica (si pensi alla celebre «danza dei sette veli»). Ma, come è noto, nella storia della cinematografia non è mancata anche la smitizzazione con la figura ironica di un Totò, gran devoto di San Giovanni decollato, che nel film di Amleto Palermi (1940) si indigna contro chi sottrae l’olio dal lumino dedicato al santo.

Lo storico giudaico filo-romano Giuseppe Flavio (I sec.), nella sua opera Antichità Giudaiche (v, 2), ricordava che il Battista era stato giustiziato nel carcere della fortezza di Macheronte (Machaerus) che domina la costa occidentale del Mar Morto. In quel sito, a partire dal 1968, si avviò una serie di scavi che continuarono soprattutto con i francescani archeologi Virgilio Corbo e Michele Piccirillo, e approdarono alla più sistematica campagna di scavi guidata da un eccezionale archeologo ungherese Győző Vörös, talmente appassionato a questa impresa da aver scelto di porre la sua residenza con la famiglia in Giordania (la ricerca era partrocinata, infatti, dal Royal Department of Antiquities in Jordan).

I risultati di questa ricerca iniziata nel 2009 furono impressionanti, come attestano i vari report affidati a imponenti volumi scientifici. Ora l’archeologo – che ho avuto la fortuna di incontrare e dialogare con lui e che è stato insignito nel 2022 anche della medaglia d’oro del pontificato da papa Francesco – ha deciso di affidare a un testo divulgativo il succo dei suoi interventi che hanno permesso di ritrovare gli spazi palatini entro cui si è consumato il martirio del Battista. La cittadella, posta su un colle-tribuna, reca oggi il nome arabo di Mukawer che, in filigrana, rivela l’originario Machaerus.

La trama dell’opera permette di seguire tutta la storia vissuta da questo sito archeologico, soprattutto attraverso gli scavi del palazzo reale erodiano, dotato di un cortile di 600 metri quadri. Si ha, così, la conferma delle vicende che là si consumarono. In modo inatteso, l’autore ricostruisce nel suo libro anche la permanenza del ricordo di quegli eventi nel fluire successivo dei secoli attraverso l’arte: dal mirabile «Codice Purpureo» di Rossano Calabro e da Caravaggio fino alla modernità con Giovanni Fattori, Edward Armitage e, la citata Salome di Strauss. Purtroppo l’attuale situazione di tensione che avvolge tutta l’area israelo-palestinese si riflette negativamente anche nel turismo e nei pellegrinaggi.

Nella finale del saggio Vörös auspica che l’ideale bimillenario del «Golgota di Giovanni Battista» nel 2029 possa vedere una ripresa interreligiosa di celebrazioni e visite perché il Precursore di Gesù è caro anche all’islam. Non per nulla, l’introduzione al volume è stata scritta dal principe giordano El Hassan bin Talal, grande sostenitore del dialogo tra le religioni abramitiche. Nell’attesa di una versione italiana, una nota speciale merita l’affascinante apparato iconografico, una sorta di mirabile commento al testo che quasi si tramuta in un’opera a sé stante. Si conferma, così, quello che scriveva Alexandre Dumas padre (l’autore dei Tre Moschettieri) nelle sue Impressioni di viaggio: l’antichità che viene fatta emergere dal grembo della terra attraverso l’archeologia è «l’aristocrazia dell’umanità».