Bomba: l’incubo dell’allarme

A mezzogiorno, in una placida giornata di primavera, nel quartiere degli affari di Varsavia ha suonato una sirena antiaerea.

La domanda da porsi non è perché io non sapessi di questo atto simbolico per commemorare la rivolta del ghetto bensì perché abbia riconosciuto questo suono. Ho sempre vissuto in tempo di pace e non ho mai viaggiato in teatri di guerra, eppure sono bastati pochi secondi per associare il tono della sirena alla minaccia di una bomba. Infatti, i figli del XXI secolo sono abituati a temere e a patire quello che definirei come l’incubo dell’allarme. Questa continua apprensione per un imminente pericolo per la propria stabilità caratterizza la società di oggi poiché negli ultimi 60 anni è stata testimone degli attacchi del terrorismo nazionale e internazionale. Inoltre, anche le nuove generazioni sono cresciute nella lunga ombra proiettata dagli attacchi dell’11 settembre, nell’epoca degli “allarme-bomba”, del terrorismo, non solo quello di matrice islamica. Secondo i sondaggi condotti dall’Eurobarometer nel 2016, 8 persone su 10 ritenevano alto il rischio di un attacco terroristico. L’improvvisa esplosione di ordigni, volta a dilaniare la quotidianità della gente comune, è, infatti, una tra le tattiche più utilizzate dagli attentatori di ogni fazione come dimostrato dai grafici del Global Terrorism Database.

Oltre a provocare ingenti danni a persone e cose, la detonazione è sinonimo di distruzione che va a minare tutte le certezze materiali dell’essere umano, creando un vuoto che rimane incolmabile. Non è difficile imbattersi in collage fotografici che documentano la devastazione di una bomba, confrontando scatti del prima e del dopo, quasi per cristallizzare l’irreversibilità di quel momento. Di fatto, l’enorme copertura giornalistica e diffusione mediatica, anche in diretta, può contare su una vasta quantità di immagini in grado di raggiungere anche i soggetti più lontani che quindi possono, in questo modo, osservare la distruzione e l’annichilimento causati da tali eventi. Tuttavia, forse un attacco che spesso oggi sottovalutiamo è proprio il “bombardamento” mediatico. Attraverso i moderni mezzi di comunicazione abbiamo facile accesso a foto o video e, credendo che un’immagine valga più di mille parole, difficilmente riusciamo ad ampliare il nostro punto di vista: l’informazione (o la disinformazione) è così diventata un’arma. Dai profili social, ci giunge, infine, anche la quotidianità di chi sotto le bombe ci vive e non ne è semplicemente spettatore. È il caso per esempio della tiktoker Valeria Shashenok, classe 2002, che ha condiviso con i suoi follower le sue paure e la sua vita nel rifugio antiaereo. Come altri, anche lei denuncia come, da quando le bombe hanno cominciato a essere annunciate dalle sirene prima di arrivare dal cielo, si è riacutizzato in tutti noi quel sentimento di incertezza e di insicurezza per un futuro devastato e senza speranze.

Attendere l’arrivo di una bomba, senza sapere dove cadrà, condanna paradossalmente all’immobilità della vita che oscilla tra la consapevolezza e la rassegnazione di sapere che le cose non possono cambiare. Nonostante gli allarmi nelle zone più pericolose del mondo, c’è ancora chi decide di contrastare la bomba semplicemente portando avanti la propria quotidianità: andando a lavoro, frequentando la scuola o incontrando gli amici. Solo in questo modo, si combatte la paura della bomba, della trappola e dell’immobilità dimostrando che c’è sempre chi ancora spera nella restaurazione di un’esistenza normale in cui è si è sicuri “da morire” di poter continuare a vivere.

Federica Barbera